LA CAPITALE

All’età di nove anni ero già miope.

Il primo giorno di scuola, in quarta elementare, mia madre si raccomandò tanto: “Siediti al primo banco, così puoi vedere bene la lavagna”.

Ma io non volevo stare al primo banco. Quella era la fila dei secchioni. Trovai un posto in seconda fila: davanti a me non c’era nessuno.

Mia madre mi chiese se vedessi bene alla lavagna.

“Dal mio posto” risposi “la lavagna si vede benissimo”. Era la verità.

Finché, dopo una settimana, arrivò Gianfranco. Lo accompagnò in classe sua madre.

“Maestra, per favore, faccia sedere Gianfranco al primo banco. Così potrà tenerlo sott’occhio: è un bambino che si distrae spesso”.

La maestra chiamò il bidello e fece mettere un altro banco proprio davanti al mio.

Ora per guardare alla lavagna dovevo torcere il collo. A mia madre non dissi nulla.

Inoltre Gianfranco continuava a distrarsi, mentre io mi sforzavo di scrutare la lavagna, lui guardava sempre fuori dalla finestra. Stava al primo banco, non era né secchione né miope e non guardava nemmeno la lavagna! Lo odiavo: era anche antipatico, non dava confidenza a nessuno.

Durante l’intervallo mangiava il suo panino da solo e se giocavamo a pallone lui, si allontanava, saliva sul muretto e da là guardava il mare.

Un giorno che era assente, la maestra ci spiegò che Gianfranco era figlio di un marinaio. Ogni anno, seguendo il padre, aveva cambiato classe. Per questo bisognava scusarlo se non faceva amicizia con nessuno.

Siccome continuava a guardare fuori dalla finestra durante le lezioni, Gianfranco era anche il peggiore della classe. Solo in una materia era il migliore di tutti: la geografia.

Conosceva a memoria tutte le capitali del mondo.

Lo scoprimmo un giorno che la maestra iniziò a interrogarci sulle capitali: Gianfranco rispondeva pronto a tutti i quesiti. Conosceva la capitale della Romania, dell’Egitto, del Giappone, persino della Nigeria. Finché la maestra non chiese la capitale dell’Uruguay ed io fui più svelto di lui.

Durante l’intervallo Gianfranco mi si avvicinò minaccioso.

“Com’è che conosci la capitale dell’Uruguay?”.

“L’avevo sentita alla tv durante una partita di calcio. E’ un posto molto bello. C’è anche il mare”.

“Chissà se mio padre lo conosce”.

“Fatti portare” dissi.

“Magari quando sarò grande”, rispose.

Così diventammo amici.

Durante l’intervallo ci sedevamo vicini e lui m’insegnava le capitali del mondo.

Le aveva imparate grazie al padre che era sempre in viaggio.

A volte andavamo insieme sul muretto a guardare il mare, Gianfranco indicava un punto lontanissimo con il dito e diceva: “Mio padre ora è laggiù”.

“Laggiù dove?” chiedevo.

“In una nuova capitale. Quando tornerà mi porterà un regalo”

“Che regalo”

“Non lo so. Ma gli ho detto che ora ho un nuovo amico e che vorrei mi portasse due regali”.

“E quando torna?”

“In primavera”.

Da quel giorno anch’io, come lui, non vedevo l’ora che arrivasse quella primavera.

Passò l’inverno, ma quando venne Marzo, Gianfranco diventò improvvisamente triste.

Un giorno, durante l’intervallo, gli chiesi: “Cos’hai? Sei triste!”.

“Lasciami stare, mio padre torna la settimana prossima, e devo partire subito con lui”.

“Digli che vuoi restare qui !”

“Glielo ho già detto. Non si può”.

“Come non si può?”.

“Non si può e basta!” rispose piangendo.

Continuammo a mangiare il panino senza parlare.

Nei giorni successivi, Gianfranco, puntuale, era al suo posto, tanto che pensai che suo padre non fosse ancora tornato o non dovesse più ripartire.

Poi un mattino il suo banco rimase vuoto.

La maestra disse che Gianfranco aveva cambiato scuola, ma che un giorno sarebbe passato a salutarci.

Ma quando? Questo la maestra non lo disse perché non lo sapeva.

Gianfranco non venne più.

Ero così triste che finsi di dover andare in bagno e là piansi.

Dopo qualche giorno il bidello portò via anche il suo banco.

Che vedessi benissimo di nuovo bene la lavagna, non servì a consolarmi. Avrei voluto continuare a vedere la nuca di Gianfranco.

Alla fine dell’anno scolastico, ricevetti una cartolina dalla capitale dell’Uruguay.

“Sta’ tranquillo, appena torno ti porto il regalo”.

Caro Gianfranco, volevo dirti: io sono ancora qui che ti aspetto.

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