RUMORE BIANCO

Quel mattino me ne stavo tranquillamente seduto al tavolino di una piccola bakery in un quartiere popoloso della mia città. Ignaro di ciò che stava per accadere.

Avevo appena terminato di mangiare una fetta di cheesecake alla crema.

Quando feci per alzarmi mi sovvennero le previsioni del tempo ascoltate poco prima. Alla televisione avevano detto che quel giorno si sarebbero raggiunti i quaranta gradi.

Decisi di restare ancora un po’. Là dentro si stava bene: l’aria condizionata era regolata alla temperatura giusta e, tranne me e la ragazza al banco, c’erano solo altre due persone, piuttosto anziane, nell’angolo della sala.

Guardai l’orologio, mancavano dieci minuti alle undici.

“Alle undici in punto vado” pensai e mi misi a scartabellare sul telefonino.

Con me avevo pure “Rumore bianco” di Don DeLillo, ma in quel momento non avevo molta voglia di continuarne la lettura.

Mentre guardavo lo schermo dunque, sentii il rumore della porta che si apriva. Io e la ragazza ruotammo il capo in direzione dell’ingresso.

Fu in quel momento che entrò lei.

Indossava un vestito nero, credo di raso, quasi lucido, stretto ai fianchi da una cintura sottile sempre nera, con la fibia color argento. Dalla spalla le pendeva una borsetta beige, con la chiusura a bottone. Ai piedi aveva dei sandali sempre neri, con la suola bianca alta pochi centimetri.

Scorgendola mi voltai decisamente. Non era bella: era bellissima.

Si fermò al banco disse qualcosa alla ragazza quindi venne verso il tavolo proprio di fronte al mio. Finsi di riguardare il display ma in realtà non la perdevo d’occhio un istante. Delle quattro sedie disposte intorno al tavolo scelse quella più vicino a me.

“Se si siede là, mi darà le spalle” pensai “…peccato”.

Scansandola si voltò di lato, esitò un attimo, quindi poggiò la borsetta su quel posto e andò a sedersi dalla parte opposta; da quella posizione potevo guardarla piuttosto bene, anche se un pilastro della sala me ne nascondeva un fianco.

Posai immediatamente il cellulare sul tavolo: non volevo pensasse fossi uno di quelli che stanno ore a guardare stupidaggini su uno schermo.

Rimasi qualche istante indeciso. Esaminai un paio di volte la lista dei caffè enumerati su un tabellone alla parete, quindi ripassai la password del wi-fi scritta col gesso sul pilastro.

Lei si tolse un elastico dai capelli e fece volteggiare i capelli nell’aria. Erano di un biondo scintillante, lunghi appena oltre le spalle e fini come raggi di sole dicembrini. Quindi scrisse un breve messaggio, muovendo rapidamente le dita sottili sullo schermo del cellulare, controllò che fosse corretto avvicinandolo agli occhi, infine lo spense e lo ripose sul tavolo.

Approfittai che non mi guardasse per osservarla con maggiore attenzione.

Teneva lineamenti di fanciulla disegnati sulla pelle chiara percorsa da venature scarlatte, i seni, due arance, tondeggiavano morbide, increspandole il vestito.

Riguardai il suo abito: era elegante, quasi da cerimonia, ma le scarpe erano troppo informali, quasi un modello sportivo. Poteva essere l’abbigliamento adatto per un appuntamento galante. Improvvisamente mi balenò il sospetto che stesse aspettando qualcuno.

“Sicuramente sarà così” pensai. Immaginai che, da un momento all’altro, arrivasse un bellimbusto con deltoidi pronunciati e lunghi capelli impomatati. Con un sorriso largo e falso avrebbe rapito la sua attenzione e insieme sarebbero andati via, allacciati.

Quel pensiero mi infastidì, provocandomi un passeggero senso di malessere.

Intanto la ragazza le si avvicinò tenendo un vassoio. Lei le fece spazio scansando la sedia verso sinistra mentre riceveva un caffè e un minuscolo tortino di cioccolato.

Ora il pilastro la copriva quasi per metà. Riuscivo a scorgere solo una parte del suo viso, due ginocchia ma un solo piede che, sospeso, ondeggiava intrappolato nel sandalo nero sportivo.

Senza dare troppo nell’occhio decisi di spostare la mia sedia, impercettibilmente un centimetro alla volta verso sinistra aggirando l’ostacolo del pilastro, in modo da formare nuovamente un allineamento tra il mio ed il suo viso. Lei, sorseggiando il caffè, non si accorse di nulla. Era oggettivamente bella.

Quando ebbe finito affondò il cucchiaino nel tortino: non aspettava nessuno.

Prima che i nostri occhi rischiosamente si rincontrassero, decisi di darmi un tono. Agguantai dal tavolo “Rumore bianco” e ne ripresi la lettura.

Ero rimasto all’inizio della seconda parte, quando Jack Gladney scopre l’avanzare della nube tossica fuoriuscita da un vagone ferroviario a causa di un incidente. Sulle prime non si comprende precisamente né l’entità né la pericolosità dell’evento, nonostante gli effetti sembrino da subito eccezionali.

Lessi una pagina mentre lei si avventurava verso il cuore del tortino. Non era facile continuare a pensare alla nube tossica incombente sulla cittadina di Blacksmith mentre si ripuliva le labbra dalla cioccolata passando e ripassandoci sopra la lingua.

Rimasi con il libro a mezz’aria, il mio sguardo rasentava il bordo superiore del volume, formando una linea retta con la sua piccola bocca che si attorceva contro il gusto denso della cioccolata.

Cercai di distrarmi riguardandole i piedi, risalii fino alle ginocchia smarrendomi laddove il vestito incontrava le cosce, in un incrocio di pieghe e chiaroscuri che mi era impossibile decifrare. Da là sollevai la vista, con uno scatto, oltre il bordo del tavolo.

A quel punto l’incrocio dei nostri occhi fu inevitabile. Provai ad alzare leggermente il libro ma oramai era tardi. Tutte le molecole presenti lungo la direzione “Me-Lei” si erano scontrate con un frontale devastante. Abbozzai un sorriso, poi mi ricordai che “Rumore bianco” copriva la metà  inferiore della mia faccia e tornai serio, vidi gli angoli della sua bocca alzarsi in maniera impercettibile.

Lei cambiò ancora posizione delle gambe, con un movimento al rallentatore ripose una accavallando l’altra. Sistemò le spalle, bilanciando il peso. Allungò il collo in avanti. Quindi controllò il tortino: era finito.

Chiusi il libro e lo poggiai sul tavolo. Lei riguardò il cellulare. Era bella, non c’erano dubbi.

Pensai di non avere molto tempo: dovevo fare qualcosa in fretta.

Mi alzai di scatto, mi avvicinai al banco e chiesi una penna. La ragazza mi allungò quella che utilizzava per le ordinazioni. Dal banco raccolsi anche un depliant pubblicitario. Lo voltai dalla parte vuota. Tornato al tavolo scrissi il mio numero di cellulare e la mia mail, quindi ci scarabocchiai un po’ intorno, per non lasciare il resto del foglio bianco; mentre riempivo di segni quella pagina non smisi di fissarla.

“Quanto è bella!” continuavo a pensare.

Spostai ancora leggermente la sedia verso sinistra.

I suoi occhi ora spuntavano dall’angolo del pilastro, curiosi. Feci in modo che si accorgesse che stessi scrivendo. I due anziani, nel frattempo, si alzarono, pagarono la consumazione e uscirono. A quel punto, là dentro, eravamo rimasti solo io e lei. E la ragazza ovviamente.

Mi accorsi che nella bakery era calato un silenzio sordo, quasi artificiale.

Presi coraggio: con un movimento fintamente maldestro mossi il tavolo lasciandolo strisciare sul pavimento. Lo stridio ne catturò l’attenzione. Quando mi accorsi che mi stava inequivocabilmente guardando, smisi di scrivere e spinsi il foglio verso il bordo del tavolo, come se volessi porgerglielo. E le sorrisi.

Lei mi fissò attirata. Alternò nuovamente l’accavallo delle cosce. Pareva imbarazzata. Guardò ancora l’ora.

Prima di alzarmi dal tavolo, recuperai “Rumore bianco”: ne avrei certamente proseguito la lettura quel pomeriggio.

Raggiunsi il banco. La ragazza digitò frettolosa alcune cifre e mi porse il conto. Pagai.

Mentre ritiravo le monete di resto, mi voltai ancora a guardarla.

Lei era sempre al suo posto, immobile, la sua spalla sinistra sfiorava l’angolo del pilastro, le mani erano poggiate sul tavolino tra la tazzina e le briciole scure del tortino.

Le onde dei suoi capelli rilasciavano riflessi luminosi come il mare all’alba.  

Uscii sperando si voltasse.

Erano le undici e venti; la nube tossica sarebbe avanzata inesorabile verso la cittadina di Blacksmith.

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