ABITUDINI

“Fare le vacanze diventa ogni anno più faticoso” disse Claudio, crollando di schianto su una panchina del lungomare: respirava a fatica. Eppure avevamo camminato solamente un centinaio di metri, non di più.

Io e Claudio siamo amici di lunga data, ma ultimamente ci siamo persi di vista.

“Dove sei stato?” gli chiesi, aveva il viso stanco e la fronte arsa dal sole.

“Al mare. Con mia moglie” rispose.

“Al mare?”.

Claudio aveva sempre evitato le spiagge, specie d’agosto. L’unica cosa che lo rendeva veramente felice in estate era starsene al fresco, in un luogo silenzioso, magari a leggere.

“Lo vuole mia moglie” esclamò, poi inspirò forte prima di proseguire “è già il terzo anno consecutivo che ci vado”. Notai che su «consecutivo» aveva alzato leggermente il tono della voce. Se fosse stato un testo scritto, sarebbe stato in grassetto.

“Dai! Allora ti piace?”.

“Mah” aggiunse.

“Se lo fai vuol dire che ti piace!”.

“Fidati. Ci si abitua a tutto” disse conciliante.

L’ombra di una palma ci proteggeva dal sole. Claudio imbracciava la copia di un quotidiano che credo avesse in animo di leggere. Il suo respiro rimaneva corto.

“Quindi ti sei sposato…” .

“Da quattordici mesi e una settimana” disse ispirando ancora forte, come un apneista in emersione.

“E Giulia?” mi chiese “stai sempre con Giulia?”.

“Mi sono lasciato”.

“Che peccato! Quanto siete stati insieme?”

“Quattro anni” risposi senza far trapelare nessuna emozione.

“Accidenti! Dovevate sposarvi se non sbaglio”.

“Dovevamo…”.

Passarono alcuni bimbi urlando. Claudio aggrottò la fronte coprendosi le orecchie con il palmo delle mani, quando se le scoprì, fui io a tornare sul tema del viaggio.

“Sei partito in treno?” domandai.

“In auto!”.

“In auto?”.

 “Guidare non è mai stata la tua passione”.

“Mia moglie vuole girare” disse tenendo a lungo la bocca aperta sull’ultima “a” come a voler incamerare più aria possibile.

Immaginai Claudio alla guida di una vettura caricata all’inverosimile con la moglie accanto ad ordinargli le strade da percorrere, indicargli le svolte, raccomandargli prudenza e pianificare le soste. Scossi leggermente la testa per allontanare quel pensiero.

“Comunque da quando mi sono sposato ho cambiato casa, ora vivo in città. Guido tutti i giorni. Sono pendolare. Faccio un’ora e venti ad andare e un’ora e venti a tornare. Se non c’è traffico…” disse reclinando il capo all’indietro e socchiudendo gli occhi. Poi, di nuovo, respirò.

“Ma dai! Sarà faticoso…”

“Fidati. Ci si abitua a tutto” disse arrendevole.

Non soffiava un alito di vento. Claudio aprì il quotidiano su una pagina a caso. La sua attenzione fu rapita da un articolo sull’addestramento dei cani. Mi sporsi, ne leggemmo una parte insieme.

“Questa moda di mettersi un cane in casa sta dilagando” dissi imprudentemente.

Chiuse il giornale. Mi fissò.

“Noi abbiamo un cane” ribatté senza risentimento.

“Ah” esclamai.

“E’ di mia moglie. Cioè, lo aveva già prima…” puntualizzò inspirando forte col naso.

“Un cane piccolo?” tentai di salvare le apparenze.

“Era piccolo. Poi è cresciuto. Molto cresciuto”.

 “E’ un bell’impegno”.

“Bhè si. Tocca a me portarlo fuori. Due volte al giorno. La mattina… alle sei e un quarto. La sera… sul tardi. Anche se il tempo è brutto”. E qui chiuse gli occhi e prese una larga boccata d’aria spalancando la bocca.

Provai ad immaginarlo trascinato in giro da un cane colossale nell’atto di raccogliere cacche enormi; o, imbarazzato, voltarsi di lato mentre la bestia innaffiava platani rinsecchiti pisciandoci contro. 

“Ma dai! Che sacrificio!”

“Fidati. Ci si abitua a tutto” disse scoraggiato.

Il caldo pareva aumentare. Claudio richiuse il giornale poi lo piegò nel mezzo e lo utilizzò per sventolarsi. Quindi prese a fissare nel vuoto.

“Però, dai, in città avrai tutto vicino: negozi, locali, supermercati…” ripresi il filo della conversazione.

“Sotto il mio balcone c’è un pub. Fanno chiasso fino a notte fonda”.

Prima di trasferirsi Claudio viveva in una frazione del paese. Nella pace più assoluta.

“Immagino si dorma poco” formulai questa osservazione atterrito.

“Quasi niente. Specie nel weekend. Ma io sto imparando a dormire anche col rumore” disse Claudio guardandomi livido.

“Dai… ma come fai?” chiesi immaginando la risposta.

“Fidati. Ci si abitua a tutto” rispose audace.

La campana della chiesa batté la mezza. La spiaggia dinanzi a noi era stracolma. Il vociare aumentava sempre di più.

“Hai una casa grande?”. Ci doveva pur essere qualcosa di cui fosse fiero.

“Lo era”.

“Lo era?”.

“Si… prima che mia suocera si trasferisse da noi. All’inizio ci pareva impossibile poterla ospitare… abbiamo un bagno soltanto… c’è già il cane… ma non c’erano altre soluzioni… alla fine… vabbè, pace… è così”. E a questo punto prese un respiro davvero profondo. Doveva esserlo per forza per reggere il disagio.

“Dai! Immagino i problemi…”.

“Fidati. Ci si abitua a tutto” disse rassegnato.

Ora ero indeciso se considerare Claudio un eroe o un uomo piegato dagli eventi. Avrei voluto abbracciarlo forte. Somministrargli un sedativo fortissimo; addormentarlo il tempo necessario per imbarcarlo sul primo volo per la Nuova Zelanda a sua insaputa. E’ quello che, probabilmente, avrebbe fatto un vero amico.

“Dai. Ti offro un caffè”.

“Niente caffè” rispose “Il mio medico non vuole”.

Lo guardai stranito.

“Cosa vuoi che sia un caffè?” insistetti.

“Ho un veto assoluto! Per lo stress!”.

“Dai! Io non potrei rinunciare al caffè” dissi.

“Fidati. Ci si abitua a tutto” concluse deluso.

“Allora un succo di frutta” proposi.

Claudio annuì serafico. Incamerò un bel po’ d’aria e, non senza sforzo, si sollevò dalla panchina.

Mi era parso di capire che il segreto di quella tenacia risiedesse nella quantità di aria che Claudio riusciva ad immettere nel sistema respiratorio. Ad ogni sofferenza corrispondeva una precisa dose di aria. Era l’ossigeno il propellente per motorizzare il suo spirito di tolleranza. Tuttavia quelle manovre lo spossavano. Ogni variazione prevedeva una compensazione di pressione, come un sub che scende e risale dalle profondità degli abissi.

Pensai che Claudio vivesse in apnea, senza saperlo.

Quando fummo all’ingresso del bar, Claudio si bloccò, trafitto dall’improvviso squillo del cellulare.

Lo recuperò dalla tasca posteriore dei pantaloni, prese un ampio respiro quindi schiacciò il pulsante della ricezione ma non fece in tempo a dir nulla. Si sentiva una donna urlare invettive che lui timidamente provava ad interrompere, senza successo.

“Si…si…si…” riusciva solamente a dire.

Quando quella voce smise, ebbe agio di dire “Vabene. Vengo immediatamente… vengo subito”.

Rischiacciò il pulsante, riposizionò il telefono nella tasca dei pantaloni e mentre respirava nuovamente dal fondo dello stomaco, mi guardò con aria mesta e disse.

“Devo scappare”.

“Dai. Mi spiace” risposi allargando le braccia ”vuol dire che sarà per la prossima volta”.

 “Certo… ci si rivede… salutami Giu… ah no, scusa, salutami nessuno… purtroppo… ora sei rimasto solo!” sibilò abbozzando un sorriso.

“Ci si abitua a tutto” risposi sollevato.

“Fidati”.

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