5 MINUTI

Quando avevo quasi sette anni sono morto per cinque minuti.

E’ successo ad aprile, di domenica mattina, intorno a mezzogiorno.

In quegli anni, al mio paese, i “grandi” giocavano a calcio in spiaggia: ogni domenica una partita di campionato. Non era un’improvvisata, ma proprio un torneo. Ogni squadra indossava una maglia di colore diverso con grossi numeri sulla schiena, le porte erano costruite con veri pali e c’era pure la traversa.

Dopo la messa tanti bambini andavano a vedere la partita del campionato dei “grandi”.

Io ed il mio amico Daniele andavamo sempre insieme alla partita.

La maggior parte degli spettatori si posizionava sulle tavole dello stabilimento balneare più vicino. Ad aprile i lidi balneari non erano ancora terminati, ma lo scheletro della struttura teneva su un tavolato: da là si poteva guardare la partita dall’alto.

Daniele voleva stare sulle tavole del lido, io no: volevo andare in spiaggia vicino al campo da gioco.

Speravo sempre di dare un calcio al pallone quando usciva dal campo, per ripassarlo ad un giocatore o al portiere. Era un pallone per “grandi”, di cuoio duro e pesante, ma io ero certo di possedere la forza necessaria per calciarlo, se fosse stato necessario.

Mia mamma mi aveva proibito di andare sulla spiaggia a guardare la partita. La sabbia poteva entrarmi nelle scarpe, il pantalone del giorno di festa sporcarsi, la polvere ricoprire i nostri abiti.

Anche Daniele diceva che stare sulla spiaggia era pericoloso.

Aveva la mia stessa età, ma era talmente giudizioso che anche mia madre, a volte, gli raccomandava di non perdermi di vista.

Tuttavia, quella domenica, Daniele si lasciò convincere.

Attenti alla polvere, alle scarpe e al pantalone, scendemmo in spiaggia.

“Possiamo stare qui” disse Daniele, quando fummo accanto alla linea laterale, proprio sotto la palafitta del lido.

“Da qui non si vede bene”, risposi.

Percorremmo tutto il perimetro del campo, finché fummo proprio dietro la porta.

“Qui è imprudente stare!” disse Daniele.

“Ci sono anche altri spettatori” risposi.

Era una splendida mattina di aprile, il sole brillava sui cristalli della sabbia, talvolta accecandoci.

Fu così che là restammo: tra i tifosi della squadra del portiere che ci dava le spalle; lo incoraggiavano e nel contempo urlavano frasi irripetibili contro l’attaccante avversario. Da quella posizione vedevo bene le gambe magre di quel giovane portiere: come grissini lo puntellavano instabile sui dossi della marina. I suoi riccioli neri saltellavano ad ogni suo balzo. Invece l’attaccante era pelato, aveva gambe grosse come tronchi d’albero ricoperte di ciuffi di pelo nero.

Dopo circa dieci minuti ci fu un lungo rilancio dalla metà campo lontana, il giovane portiere provò ad allontanare il pallone saltando più in alto che poteva, alzando il pugno come un superman riccioluto. Ma fu forse per colpa del vento, o per via di quelle gambe troppo fragili e rinsecchite, che lo mancò. L’attaccante pelato, furbo come un ladro, si avventò sul pallone schiacciandolo sulla sabbia quasi facendo un fosso.

Ora la porta era spalancata ed indifesa. Incorniciati dai due pali e dalla traversa c’era il nostro mucchio. Quei tifosi e, tra loro, io e Daniele.

Era un campionato regolare, c’erano le squadre con le maglie colorate, l’arbitro, il pallone di cuoio da “grandi”, le porte avevano pali e traversa, ma mancava la rete.

L’attaccante inquadrò il bersaglio: uno dei fanatici al mio fianco, che ancora lo sfotteva.

Tirò con tutta la forza che aveva nelle gambe: ne aveva certamente tanta ma, altrettanto certamente, non possedeva una gran mira.

Oppure fu solamente accecato dal brillare della sabbia.

L’ultima immagine che ho è quella dell’attaccante pelato che digrigna i denti e carica il destro.

Poi ricordo che ero finito in un luogo sconosciuto. Dal fondo, forse di un pozzo, guardavo verso l’alto. Decine di persone si sporgevano verso di me, chiamando il mio nome.

“E’ morto, E’ morto!” dicevano alcuni.

“Certamente è così!” rispondevano altri.

“Non vi accalcate” si sentiva in lontananza: “Lasciatelo stare”.

Quando riaprii gli occhi ero seduto al tavolino del bar. Intorno a me c’erano alcune persone, tutte sconosciute.

E Daniele ? Daniele non c’era.

Una donna, che mi teneva sulla testa un panno bagnato, disse: “è o’nipote do naghiere, stava dietro la porta…”.

Siccome avevo sete, chiesi un bicchiere d’acqua.

Quando pensai d’esser pronto, mi alzai lentamente: mi girava appena la testa, ma non avvertivo altri dolori. Mi sentivo soltanto come un crepa dalle parti dello stomaco.

“E’ resuscitato” disse ridendo un vecchio che stava al banco a giocare la schedina.

Improvvisamente comparve mio nonno. Quando era successo il fatto, stava come sempre nella spiaggia accanto a preparare la barca.

Uscendo in strada sentii delle urla provenire dalla spiaggia. Probabilmente era in corso il secondo tempo. Tutto era proseguito come se niente fosse accaduto.

“Stai bene?” mi chiese il nonno.

“Sono stato colpito con un tiro!” risposi.

“La gente pensava fossi morto” disse il nonno e poi si mise a ridere.

“Era un tiro fortissimo!”.

“Allora è un miracolo che non sei morto”.

Mi toccai la pancia per controllare la crepa. Sentivo le ossa del bacino e lo sterno. Come avevo potuto resistere ad un tiro così forte?.

“Forse sono morto ma poi sono resuscitato”.

“Certo. Come no” disse il nonno, stringendomi più forte la mano perché eravamo in prossimità delle strisce pedonali.

“Era un tiro fortissimo”, ripetei passate le strisce.

“Non bisogna mettersi dietro la porta!”

“Che bisogno c’era di tirare così forte?”.

Facemmo tutta la strada sempre mano nella mano. Camminando mi accorsi di avere della sabbia nelle scarpe. Certamente, dopo essere stato colpito, ero caduto e mi era entrata. Davanti al portone del palazzo il nonno mi sistemò la camicia, rinfilandomela nei pantaloni.

“Stai bene?” mi chiese nuovamente.

“Ho la sabbia nelle scarpe”. Dovevo toglierla per tornare a casa come se niente fosse accaduto.

Entrammo, mi sedetti sulle scale ed il nonno mi tolse le scarpe, poi le rivoltò. Alcuni granelli caddero sul pavimento dell’androne.

“Nonno, ma veramente ero morto?”

“Si. Ma solo per cinque minuti” disse.

“Si può morire solo cinque minuti?”.

“Certo. Si fa un giro dall’altra parte. Poi si torna per avere un’altra possibilità”.

Non chiesi al nonno cosa intendesse per «dall’altra parte», però pensai che morire per cinque minuti fosse una cosa normale, che ogni tanto capitava. E poi, in fondo, era giusto avere “un’altra possibilità”.

“Tu sei mai morto per cinque minuti?” gli chiesi.

“Io non mi sono mai messo a guardare la partita da dietro la porta”. Rispose mentre mi rimetteva le scarpe.

“Non dire niente a casa”, si raccomandò.

“Non dico niente”.

Né che ero andato in spiaggia, né del tiro che mi aveva colpito, né della sabbia nelle scarpe, né che ero morto per cinque minuti. Di tutto questo non dissi niente a casa.

La domenica dopo io e Daniele andammo di nuovo a guardare la partita, ma non scendemmo in spiaggia. Ci fermammo sull’impalcato del lido. Schiacciati contro la ringhiera, gli occhi tra una sbarra e l’altra.

“Te l’avevo detto che non bisognava andare in spiaggia” disse Daniele, “e poi che non dovevamo fermarci là”.

“Sai che sono morto per cinque minuti?”.

“Ma che dici?”

“Si. Per cinque minuti”

“Quando si muore, si muore” disse Daniele, “mica per cinque minuti!”.

Ma che ne poteva sapere Daniele della morte? Aveva 7 anni come me!.

Quel mattino guardammo tutta la partita con la testa infilata tra le sbarre della ringhiera, senza più dirci una parola.

La primavera successiva, quando ricominciò il campionato, mio nonno non stava più in spiaggia a preparare la barca; stava sempre a letto.

Ogni mattina la nonna gli portava la colazione su un vassoio, scintillante, in argento. E poi uno specchio, la schiuma e il rasoio, così poteva, sempre dal letto, farsi la barba.

Una domenica io e Daniele, invece di andare a vedere la partita, andammo a trovare il nonno.

Volevo che spiegasse a Daniele quella faccenda dei cinque minuti.

Entrammo nella sua camera e ci sedemmo ai lati del letto.

“Nonno, ciao” dissi.

Il nonno non rispose. Era sdraiato a pancia in su e teneva gli occhi chiusi per metà.

“Nonno, lui è il mio amico Daniele, voleva sapere una cosa”.

Daniele sporse la testa fin quasi sul letto, come per farsi riconoscere. Ma il nonno non si mosse, né aprì gli occhi.

“Secondo me non ti sente” disse Daniele.

“Sì che mi sente!”.

Provai ancora a chiamarlo ma il nonno non fece nessun movimento.

“Adesso non può: sta dormendo”, dissi infine a Daniele.

Restammo là ancora qualche minuto, poi uscimmo.

La sera dopo, tutta la nostra famiglia restò a lungo nel soggiorno con le persiane chiuse.

Il soggiorno dei nonni era una stanza dove non si andava mai. C’era un tavolo tondo con delle sedie scomode, due poltrone di velluto porpora e degli scaffali ricolmi di vecchie tazze dipinte e bomboniere di porcellana.

C’era pure una insopportabile puzza di chiuso.

Eravamo seduti intorno al tavolo quando la nonna entrò urlando: “E’ morto!”.

Lo strillò due o tre volte, poi lo ripeté ancora ma sempre più piano.

“No. E’ andato a fare un giro dall’altra parte” pensai subito

Ci fu un gran trambusto, mia mamma scoppiò a piangere, la nonna crollò sulla poltrona respirando a fatica. I miei zii corsero subito nella camera e non tornarono più. Mio fratello e mio cugino diventarono bianchi come stracci.

“State calmi”, volevo dire a tutti. Ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a parlare. Le parole erano precipitate in una nuova crepa dello stomaco.

Poi corsero tutti nella camera del nonno ed io rimasi solo nel soggiorno, semibuio, con le persiane abbassate e la puzza di chiuso.

Sapevo che bastava solo aspettare un po’: il nonno avrebbe chiesto un bicchiere d’acqua, e tutto sarebbe proseguito come se niente fosse accaduto.

“Chissà la gioia” pensavo “quando tra cinque minuti il nonno tornerà per avere una seconda possibilità”.

Daniele non poteva avere sempre ragione.

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