La mia amica Silvia ha un figlio che si chiama Giuseppe. Ma tutti lo chiamano Pino.
Tutte le volte che Silvia mi parla di Pino mi chiede: “dove ho sbagliato?”.
Ma non lo chiede solo a me, con chiunque parli di Pino, ad un certo punto, al culmine della disperazione, chiede: “dove ho sbagliato?”.
Non so cosa risponderle.
Pino ha dodici anni, è figlio unico, frequenta le medie e passa la maggior parte del suo tempo disteso sul divano.
“Se non andasse a scuola” mi dice Silvia “probabilmente non uscirebbe mai di casa”.
Forse solo in caso di scossa di terremoto. Però forte, pari almeno al quinto grado della scala Richter.
“Non posso credere che tuo figlio sia così” ho detto a Silvia.
“Se non ci credi vieni a casa, così ci parli”.
Allora sono andato a casa di Silvia e ho incontrato Pino.
Non è facile parlare con Pino: quando non dorme gioca con lo smartphone, se non gioca ascolta musica; a volte fa le due cose insieme; comunque, qualsiasi cosa faccia, la fa indossando una grossa cuffia che lo esclude completamente dal mondo esterno.
Inoltre, non è raro che queste operazioni, Pino, le faccia in bagno dove trascorre, a detta della madre, anche un’ora per volta.
“Forse si dedica all’onanismo”, ho ipotizzato.
Silvia mi ha incenerito con lo sguardo.
Pensavo di dovermi presentare, dirgli che sono un amico della madre, ma Silvia mi ha consigliato di saltare i preliminari.
“Ai giovani di oggi non interessano molto queste cose”.
Pino era sul divano, giocava a “Minecraft”. Gli ho fatto un cenno con la mano e lui ha messo in pausa.
Era tanto che non parlavo con un dodicenne: è stato un dialogo essenziale.
“Come va la scuola Pino?” gli ho chiesto.
“Bene”.
“Come sono gli insegnanti?”
“Bravi”.
“C’è qualche materia che ti piace più delle altre?”
“Nessuna”.
“Qualche amichetta?”
“Figurati”.
“Fai sport?”
“No”.
“L’ultimo libro che hai letto?”
“Boh”.
“Vai al cinema?”
“Mai”.
Da una prima, superficiale, valutazione ho compreso che Pino si esprime solo tramite mono-vocaboli. Non usa il soggetto né il verbo, preferisce gli avverbi, semplici. Sembra gli sia sconosciuto il principio di articolazione della frase.
Ho fatto un ultimo tentativo.
“Cosa ti piace guardare in tv?”
“Niente”.
Silvia seguiva questa pseudo conversazione dalla cucina, scuotendo il capo.
Ho battuto in ritirata.
“Ciao Pino”.
“Ciao”. E ha tolto la pausa.
In realtà ci sarebbe anche un padre che dovrebbe occuparsi dell’educazione di Pino, ma, come nella maggior parte dei casi, si tratta di un padre sbadato, che reputa il comportamento del figlio assolutamente normale.
“Alla sua età anche io ero così” ha detto a Silvia. E fine della questione.
Per un periodo, comunque, il padre di Pino, ha tentato di trovare un territorio comune: cercò di farlo appassionare al calcio, costringendolo a guardare insieme con lui alcune partite di champions league. L’esperimento naufragò a causa dell’assoluta mancanza di affezione di Pino verso qualsiasi compagine e, soprattutto, la sua risoluta mancanza di competitività; anche esercitata in maniera passiva come è caratteristica dei tifosi.
Da quel momento il padre di Pino, convinto di aver esercitato il suo ruolo di genitore, si è fatto da parte. Riservandosi solo di occupare una zona del divano differente.
Silvia invece è disperata.
“Dove ho sbagliato?” mi chiede.
Lo domanda a tutti. Con qualsiasi amico, genitore, medico, parrucchiere si confronti, alla fine chiede: “dove ho sbagliato?”.
Silvia vorrebbe sentirsi dire che ha sbagliato a concedere a Pino l’uso dello smartphone. In realtà lei ha temporeggiato, ha respinto ogni sollecitazione del figlio fino a quando non è andato alle medie. A quel punto ha dovuto cedere.
Forse vorrebbe sentirsi dire che dovrebbe essere più severa. Cioè punire il figlio. Ma l’unica punizione possibile sarebbe sottrargli lo smartphone. Ci ha provato, ma Pino ha contrattaccato subito con due insufficienze scolastiche.
“Avevo tutti i compiti segnati sul telefono”, così l’aveva ricattata.
Silvia aveva dovuto accettare un armistizio.
Oppure vorrebbe sentirsi dire che non è possibile, che è assurdo trascorrere tutto il giorno sul divano.
“Se gli facessi un filmato e lo rivedesse tra venti anni, si troverebbe ridicolo!” mi disse.
Ma tutti, riguardando un nostro filmato di vent’anni fa, ci troveremmo ridicoli.
Ho chiesto un po’ in giro, fatto alcune ricerche. Il fenomeno dei dodicenni “indivanati” è molto più comune di quanto si pensi. Per questo motivo, molti di loro sviluppano un’obesità precoce ed un livello di colesterolo nel sangue pari a quelli di un settantenne.
Non è ancora il caso di Pino, per fortuna, che gode del metabolismo di un tricheco.
Ma il dato più grave è la mancanza di interesse per qualsiasi cosa lo circondi.
“Ci sarà qualcosa che gli piace?” ho chiesto a Silvia.
“Farò delle indagini”.
Il primo passo è stato cercare di capire che tipo di musica ascolta Pino.
Approfittando di un raro momento in cui Pino aveva abbandonato il cellulare e la cuffia incustoditi, Silvia è riuscita ad infilarsela e cliccare “play” sul display.
“Non era proprio una canzone” mi spiegava, “era una specie di ritmo, sempre uguale, con un tipo che diceva delle porcherie, alcune in rima, altre no, una specie di cantilena”.
“Ma il ritornello cosa diceva?”, avremmo almeno voluto individuare l’autore.
“Quello è il problema: il ritornello non c’era!”.
Secondo Silvia qualsiasi canzone al mondo senza ritornello finisce automaticamente nella categoria “musicadimmerda”. E’ una visione un po’ romantica del pop, ma parzialmente condivisibile.
Tuttavia, tutti gli amici di Pino ascoltano quella “musicadimmerda”.
Un’altra caratteristica di Pino e dei suoi amici, è il vestirsi male: calzoni troppo corti e/o lacerati, calzini assenti, felpe troppo grandi, colori a casaccio, cappelli inutili. Un campionario di orrori.
Dicono sia la moda.
“…ma è una moda di merda” dice Silvia.
Concordo. Resta da stabilire se sia più o meno “di merda” della musica.
Silvia vorrebbe che Pino uscisse un po’ di casa ma quando è in giro non è tranquilla: Pino e i suoi amici camminano per la strada senza staccare mai lo sguardo dal cellulare.
Attraversano incroci stradali con lo sguardo basso. Così sono gli automobilisti a doversi preoccupare di scansarli. Ammesso che anche gli automobilisti non abbiano, pure loro, lo sguardo fisso su uno smartphone.
Hanno centinaia di amici virtuali, ma la sensazione è che siano soli anche quando sono in compagnia.
“All’ultima festa di compleanno che hanno organizzato, erano in tre”. Si lamentava Silvia.
Eppure il gruppo whatsup della festa aveva 140 iscritti.
Ma, secondo me, il problema più grave riguarda il linguaggio.
Pino ha un vocabolario stimabile in pressappoco 100 lemmi, un terzo dei quali stranieri, comprensivo di vocaboli quali: “eschere”, “bella bro”, “swag”, “british” e altri che non ricordo.
Fossi l’insegnante di italiano di Pino mi sarei già impiccato saltando giù da una pila di volumi dell’enciclopedia Treccani.
Durante l’ultimo incontro scuola-famiglia, Silvia è rimasta a lungo a parlargli.
“Non si preoccupi signora” gli ha detto l’uomo, un cinquantenne con tutti i capelli bianchi.
“Oggi il mondo va così. I vecchi vogliono sembrare giovani, mentre i giovani sono già vecchi. La tecnologia ci ha rimbambiti e l’età non conta più, siamo tutti immersi in un’enorme marmellata anagrafica”.
“Dice che è normale allora?” ha chiesto Silvia.
“Ma si, non si preoccupi! Consideri Pino semplicemente un «Vecchiovane», come tutti i suoi amici”.
Silvia lo ha ascoltato come ascolterebbe Osho, se solo fosse ancora vivo.
Mi ha chiamato eccitata: “Il professore mi ha detto che è normale. Che la tecnologia ci rincoglionisce e l’età anagrafica è una marmellata, cioè che è il segno dei tempi, eccetera. Se mi raggiungi ne parliamo davanti ad un caffè”.
“Silvia non posso” le ho risposto.
Avevo un sacco di casini: il mio cellulare si era bloccato perché non riuscivo ad aggiornare più il sistema operativo, poi dovevo portare il computer in assistenza: un maledetto virus aveva aggredito l’hard disk. Ma prima dovevo passare in banca per farmi spiegare meglio come funziona l’home banking per effettuare alcuni pagamenti in previsione di queste nuove fatturazioni elettroniche. Tutte cose che non sapevo fare da solo.
Sono vecchio anche io: un «Vecchiovane», come Pino ed i suoi amici.
Il professore di Pino ha ragione: siamo tutti «Vecchiovani». Ognuno a modo suo, con modalità e tempi differenti. Per quanto ci possa affannare, col tempo non andiamo mai a pareggio.
Chissà io quando sono andato fuori sync. Quando ho commesso i miei errori.
Comunque dopo il colloquio con il professore, Silvia era molto più tranquilla.
Lo ha ringraziato stringendogli a lungo la mano.
Era così incantata dalle parole di quell’uomo che non gli ha neanche chiesto: “dove ho sbagliato?”.
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