Cosa ne sa un bambino di 7 anni di ciclismo ?. Probabilmente nulla. E’ già tanto se a quell’età si è riusciti a tirar via le rotelle dalla gomma posteriore.
Trentacinque anni fa precisi, il 5 Settembre del 1982 con i miei genitori ero in Abruzzo. Dalle parti di Pescasseroli. A casa di amici. Amici dei miei genitori, intendo. In quella Domenica pomeriggio, il silenzio era rotto dal suono di una televisione sintonizzata sul mondiale di ciclismo su strada.
Quell’anno la corsa si correva a Goodwood, un circuito costruito per le corse in moto, a sud dell’Inghilterra. La Rai in quegli anni seguiva la gara dal mattino, una lunga diretta, spesso noiosa, tentativi di fuga e ricongiungimenti. Ma ora , dopo ore, un drappello di uomini affaticati stava per affrontare l’ultima salita. Il gruppo, allungato, stava raggiungendo il fuggitivo, un americano del quale il telecronista Adriano De Zan continuava a ripetere il nome: “Boyer”.
Ma lo statunitense più temibile è un altro: “davanti al gruppo c’è Greg Lemond” urla adesso De Zan con la sua voce graffiata. Ed io penso che questo Lemond, biondo di capelli, siccome è americano sarà anche invincibile, per quanto gli americani nel ciclismo non sono mai stati buoni. La sua maglia blu con le stelle gialle, tagliata in due dalle strisce rosse e bianche si confonde con quella degli italiani, in particolare con quella di Saronni, che ha risalito la china ed ora è in terza posizione, stretto tra questo Lemond e la maglia verde dell’irlandese Kelly, un altro da tenere bene d’occhio.
Ora l’inquadratura cambia. Si vedono le teste del pubblico incollate, le mani sbattere sulle transenne come da incitamento, poi una curva stretta, una bandiera tricolore svetta tra il pubblico. Quando riappaiono i corridori la maglia blu di un ciclista spunta come un missile alle spalle dell’americano in fuga, la telecamera fa fatica a seguirlo, prima lo affianca poi lo passa al triplo della velocità. “Ecco che scatta Saronni” urla De Zan. Uno scatto secco, che passerà alla storia come “La fucilata di Goodwood”. La più bella fucilata che la storia ricordi.
Saronni. Proprio lui. Io lo conoscevo già.
Poco più di quattro anni prima, nel Maggio del 1978, mio padre portò me e mio fratello a vedere per la prima volta il giro d’Italia. Perchè a mio padre il ciclismo è sempre piaciuto.
Quell’anno al giro, il traguardo dell’ottava tappa, partita da Benevento, era a Ravello. Dal gruppo compatto, subito dopo i due tornanti di Civita, si stacca Saronni. L’altoparlante sull’arrivo lo annuncia: “è scattato Saronni”, la gente applaude, poco più di un chilometro di allungo, sul falsopiano che conduce alla piazza di Ravello, dove Saronni arriva a braccia alzate.
Io sulle spalle di mio padre, a soli tre anni, imparo il suo nome: Saronni. Si imprime deciso nella mia memoria. Così quel giorno, io che non ho ancora neanche una bici, divento tifoso di Saronni, ancora prima di essere tifoso di calcio o di qualsiasi altra cosa, mi iscrivo al partito dei tifosi di Saronni che si contrapponevano a quelli di Moser, animando una rivalità che non si vedeva dai tempi di Coppi-Bartali (e mai più si è ripetuta). A me piace questo piccolo piemontese, cresciuto a Buscate, magrolino con gli occhi furbi che mentre gli altri riflettono, scatta. Crea il vuoto e ci si infila dentro, rubandoti l’aria e il fiato.
Torniamo a Goodwood: “E’ scattato Saronni” urla De Zan. La sua maglia blu aderente con appiccicato un numero enorme, il “96”, taglia l’asfalto, sfilando come una freccia tra la folla di inglesi increduli. Un rapido, quasi furtivo, sguardo all’indietro per capire se la sua invenzione funziona, il gruppo alle spalle scompare dietro la curva. Nessuno ha avuto il coraggio di scalare il rapporto sul “53”, una moltiplica quasi impossibile da spingere su quella salita al 4%. Quando Saronni compare sul rettilineo finale dietro di lui c’è solo una moto.
Un anno prima, al mondiale corso a Praga, Saronni era partito ancora, ai trecento metri, ma era rimasto “al vento” troppo tempo, finché un belga, Maertens, furbo, uscendogli dalla scia, lo aveva beffato sul traguardo. La rabbia di quella sconfitta gli muoveva i muscoli ora, gli spingeva le gambe per quel rapporto illogico.
Io sono in una cucina di una casa sconosciuta in Abruzzo, da amici che non sono amici miei e dove non sono mai più stato nella mia vita. Mi avvicino allo schermo e quel dannato traguardo non compare mai. Ho paura che dal fondo della strada compaia Lemond, l’irlandese Kelly o qualche altro ciclista dal nome incomprensibile. Oppure un belga furbo. Ma bastano una manciata di secondi: l’inquadratura, storta, stacca sulla telecamera fissa. Saronni ha il tempo di alzare le braccia.
Come a Ravello, il 15 Maggio del 1978, giorno del quale, ovviamente, non mi ricordo niente. Anzi: forse quello sulle spalle di mio padre non ero neanche io ma mio fratello. Magari aveva portato solo mio fratello che aveva 5 anni ed io manco c’ero. Mio padre non si ricorda, ma comunque non importa.
Quando Saronni vinse il mondiale su strada, esattamente 35 anni fa, avevo già sette anni e mezzo e Saronni era diventato il mio eroe sportivo.
Il suo scatto imprevisto e improvviso su un circuito di una cittadina inglese, lontana e ostile, resta una metafora esatta di quello che ci vorrebbe nella vita per arrivare primi.
Rompere gli indugi, muoversi un attimo prima, mentre gli altri indecisi rinviano il momento, spingersi in avanti con tutta la forza che si ha in corpo. Spiare solo un attimo il paesaggio e poi tirar dritto.
Inseguire il traguardo, con più forza dopo una sconfitta.
Osare una moltiplica impossibile, non accontentarsi.
Vincere alzando le braccia.
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