Quando ero bambino pensavo che tutti i nonni indossassero, sempre, un cappello da marinaio.
Cade in questi giorni il trentesimo anniversario della più grande mareggiata che si ricordi in costa d’Amalfi, un fenomeno che durò circa tre giorni dall’11 al 13 Gennaio del 1987. Onde alte fino a 20 metri si infransero sulle scogliere della “Torricella” tra Maiori e Minori e lungo lo “Stradone”, all’ingresso di Amalfi, con un’energia del tutto inconsueta, spingendo il mare fino oltre la strada statale, alle soglie dell’abitato, in alcuni casi anche dentro.
A Minori il mare salì, sfacciato, fino a bagnare gli scalini della basilica. Sembrava volesse salire ancora per non fermarsi più. Fu un evento che, da allora, non si è mai più ripetuto.
Avevo quasi dodici anni nel 1987, la mattina dell’11 Gennaio era Domenica. La sera prima avevo sentito dire da mio nonno, a mio zio e mio padre, che bisognava andare a tirare in secca le barche. In quegli anni le barche dei pescatori venivano lasciate sulla spiaggia per tutto l’anno; quando si prevedeva che il mare potesse “salire” allora i pescatori si occupavano di sistemarle sul lungomare, a volte anche legandole agli alberi con delle funi spesse.
Il nonno aveva due barche: un gozzo che aveva chiamato “Nicoletta” come la sua prima figlia e una piccola barca in legno bianca con il bordo blu che chiamava “Morgan”. La “Morgan” era la barca con la quale sono andato a pesca decine di volte con mio padre, mentre la “Nicoletta” veniva utilizzata per la pesca notturna, nelle notti senza luna di Agosto, quando si usciva in cerca dei totani armati di alici saporite e della pietra di “carburo” per accendere la “cedilena”.
La sera del Sabato stava già montando il libeccio. Quando soffia nella stagione estiva, il libeccio è solo una brezza che viene dal mare alzando la temperatura e l’umidità, ma durante l’inverno non è un vento mite. Quando arriva il libeccio termina il gelo e il caldo improvviso ingrossa il mare. I pescatori sentono arrivare il libeccio come i rabdomanti si accorgono dell’acqua sotterranea, per questo quella sera tutti provarono a mettere le loro imbarcazioni al sicuro.
Mio nonno era un marinaio, anzi un navigatore (“naghiere”, così dicevano), comprendeva il mare e la forza dei venti, come dice la canzone di De Gregori: “andava a navigare” e “conosceva le città”. Si chiamava Andrea, in paese in molti ancora lo ricordano: aveva il viso piagato dalla brutalità del sole che gli aveva picchiato sulle guance per anni. Le mani sottili e la voce grave; me lo ricordo sulla spiaggia trascorrere ore intorno alla sua barca con una pazienza tanto disperata quando umile. Aspettare il nostro ritorno dalla pesca in piedi sulla sommità della spiaggia, sullo scivolo in cemento (la “scarpetta”). Recuperare svelto le “falanghe” per trascinare la barca a riva, strofinarle di grasso di vacca, quello che lui chiamava “il sivo”, per aiutare i tiratori nella salita. Me lo ricordo nel suo sgabuzzino tra il puzzo delle alici messe sotto sale nei recipienti di vetro, che lui chiamava “buccacci” e le lenze che maldestramente ingarbugliavamo. E lui meticolosamente districava.
Mi ricordo anche, vagamente ma me lo ricordo, di quando la gente gli chiedeva che tempo ci sarebbe stato il giorno dopo, se avesse piovuto o no, se il mare avesse schiumato rabbia o riposato docile. E che il nonno, se sentiva la brezza giusta e il cielo gli pareva perbene, rispondeva “questo è mare che non mozzica” (non morde).
Dopo qualche anno, qualcuno provò a dire che Andrea “il naghiere” in quei giorni disse che il mare non avrebbe mozzicato, forse qualcuno che non conosceva la forza del libeccio e l’anarchia delle acque. Ma non fu così. Il nonno non lo disse mai: non poteva.
Avevo quasi dodici anni nel 1987; la mattina dell’11 Gennaio era Domenica. Soffiava libeccio a burrasca, come oggi. Con mio fratello ed i miei cugini uscimmo a guardare la furia del mare salire lento fin a dove non era arrivato mai. Bagnare la piazza del paese trasportando, adagio con sé, tutto ciò che incontrava sul proprio cammino.
Mi ricordo che il nonno aveva tirato molto su la “Nicoletta” e la “Morgan”, stringendole strette ai grandi tronchi dei platani, con robusti nodi. Perché se lo sentiva, perché certamente quel libeccio non gli sembrava onesto. Da sotto il suo cappello di marinaio con il giro di cordino intrecciato, dritto sulla cima della “scarpetta”, spiò attento la più grande mareggiata mai vista in costa d’Amalfi. E forse ce l’aveva ancora negli occhi quando due anni dopo morì ed io smisi di pensare che tutti i nonni portassero, sempre sulla testa, un cappello da marinaio.
Perché da quel giorno non lo avrebbe più portato lui.
Il nonno e quei giorni di onde alte come palazzi, a noi piccoli, insegnarono che il mare va amato e compreso, nella sua pace così come nella sua assoluta ferocia.
Che spesso ci appare quieto, ma quando vuole, il mare ancora mozzica.
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