Scrive Barbara Ehrenreich sul “Metropolitan Books” (in un articolo del 2007), “I riformatori protestanti del XIX secolo vedevano coloro che festeggiavano il Carnevale come persone che avrebbero dovuto vergognarsi in presenza di un selvaggio ottentotto convertito. Il selvaggio avrebbe dovuto provare un vero disgusto vedendo la cosiddetta civiltà cristiana danzare mascherata e muoversi eccitata come qualunque tribù della foresta. Perché non pensare oggi al caso di un selvaggio non convertito che si trovi improvvisamente in una città moderna (…) Nella sua esperienza, una folla, una così gran quantità di persone, è il materiale primario per una festa, e una così larga folla rende la possibilità di una festa molto più impressionante di quanto lui abbia mai potuto immaginare”. Tuttavia la folla delle città moderne, del mondo occidentale, raramente, se non appunto durante il Carnevale, si raduna in strada per comunicare la propria gioia come massima espressione della conquista della loro libertà. E’ appunto il Carnevale, oramai, questa rappresentazione farsesca della realtà, una delle uniche occasioni che abbiamo per riappropriarci dello spazio delle nostre città. Dovremmo amarlo anche solo per questo motivo; per questo momento di rivoluzione spaziale durante il quale la folla in strada esprime, realmente o solo per finzione, la propria gioia, invadendo i luoghi della città che non gli appartengono più. Una manifestazione post-moderna persino malinconica nella sua felicità ad orologeria, che trova fondamento solo in relazione al recupero di un sacrosanto “diritto alla strada”, e alla “vita di strada” dalla quale siamo stati espropriati. Il fallimento della generazione dei nostri architetti (o più in generale dei tecnici) è in larga parte ravvisabile in questo: la mancanza di un’adeguata sensibilità nei confronti dello spazio pubblico. Aggrediti e continuamente sollecitati da soluzioni per copertine patinate, i custodi delle città hanno perso di vista il rapporto tra l’abitare e l’identità dei luoghi; che poi sarebbe il principio base di convivenza dell’umanità. Le città vengono ridisegnate su uno schema composto da centri commerciali e svincoli della tangenziale. Persino piccoli centri urbani diventano schiavi delle auto, progettano il loro futuro affidandolo alla circolazione delle autovetture, rinchiudendo gli abitanti negli abitacoli. E’ già tanto che riusciamo ad occuparci dei problemi dell’abitare, tra le quattro mura delle nostre case. L’antropologo Franco La Cecla nel suo saggio “Contro l’architettura” scrive così: “La polizia e il suo rapporto con la sicurezza sono diventati lo slogan delle nuove middle classes, uno slogan che non serve a loro, ma a eliminare tutto ciò che di imprevedibile e multifunzionale in una città accade (…) una democrazia non si può permettere di affidare la gestione dell’urbanità a dei vigilantes, pubblici o privati che siano. E questo modello di ordine poliziesco è tanto più aberrante poiché è ricalcato sull’idea di mobilità cittadina in funzione dei traffici veicolari. E’ stata l’automobile a distruggere i diritti della strada, il diritto di usare lo spazio pubblico come spazio di produzione della cultura urbana. L’auto è diventato il sistema di polizia più spietato che si sia mai potuto inventare”. Avanguardista La Cecla; ma l’auto è solo l’elemento più ingombrante tramite il quale si manifesta il paradosso della militarizzazione delle nostre città. Allargando la scala di analisi non solo nello spazio pubblico, ma pure osservando i luoghi privati, il reazionario principio di ripristinare un presunto ordine ha sottratto all’uomo il diritto all’abitare, al rinnovare l’ambiente, al ripensare le proprie città in chiave nuova. Siamo preda di un rinvigorito giustizialismo conservatore, un rincorrersi di atti ingiuntivi, dove gli emissari provano piacere per il solo fatto di produrli: un autoerotismo della pseudo legalità. Questo è il fallimento più gigantesco che ha prodotto la cultura urbanistica negli ultimi trent’anni, questo oscurantismo del progresso nel nome della regola. Possiamo ridisegnare e creare tutto, con qualsiasi materiale, in ogni forma e colore, ma solo al chiuso degli show room, contenere tutto il nostro genio folle in un maximall di periferia dove potersi rinchiudersi (ed invitare tutti a rinchiudersi), mentre fuori, nei parcheggi zeppi, compie interminabili ronde il lampeggiante dei gendarmi. Rimane il Carnevale un momento nel quale il pattugliamento poliziesco delle nostre città viene sospeso e le regole spesso inefficaci e inutili ai quali siamo sottoposti, derogate. Occorre che arrivi Carnevale, infatti, per riuscire a fermare il traffico di auto, sgombrare parcheggi che ingombrano i migliori spazi delle città, occupare la carreggiata senza timore di essere investiti, correre da una parte all’altra di questa senza temere sanzioni. Alzare il volume delle nostre emozioni. Viva il carnevale, ed ogni forma di Carnevale laico che sappiamo inventarci (gare sportive, flash mob, manifestazioni di piazza, cortei di protesta). Sarà il Carnevale, in tutte le sue forme, a guidare la controrivoluzione culturale che faranno i ragazzi che oggi hanno quindici anni. La generazione che non accetterà di farsi espropriare l’aria (il mare, l’acqua, il verde) delle proprie città, la rivendicheranno come la libertà che oggi i nostri confinanti nordafricani scoprono che gli è stata sottratta per anni … E lo fanno, non a caso, occupando le piazze. Ho molta fiducia nei miei nipoti, nei vostri figli, saranno loro a spazzare via queste divise e questi politici “giacca e cravatta”. La, nuova, vera rivoluzione partirà così, liberando quel materiale umano che fluisce nel sottosuolo delle città; che la nuova generazione saprà comprendere ed interpretare. Imparando, per dirla con le parole di La Cecla “…la danza, per poterla difendere tra nuove sponde di allegria”. L’articolo, scritto, come comprensibile, in occasione del Carnevale scorso, e pubblicato su www.positanonews.it, torna di attualità oggi con le proteste degli “indignados” spagnoli.
Il carnevale laico delle nostre città
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