(continua…) Quando entrammo nella grande aula per svolgere il compito scritto di “Fisica Tecnica”, Ciancio divenne molto serio. Ancora più serio. Era come se tutte le volte che dovesse fare un esame, entrasse in uno stato di “trance” che gli consentiva di concentrarsi meglio. Ricordo i suoi occhi che divennero di ghiaccio e che da quel momento in poi non disse più una parola. Guardammo quale fosse il nostro posto, grazie alla vicinanza delle iniziali del nostro cognome non ci sedemmo molto lontano. Entrammo: io gli dissi “in bocca al lupo” sottovoce, e che ci saremmo ritrovati in quel posto alla fine del compito, poi provai a tendergli la mano per stringere la sua, ma lui era già partito dritto, verso il suo posto.
Finii due file sopra di lui, potevo scrutarne i movimenti se volevo. Lui non si voltò mai. Quando uscimmo da quell’aula, trovai Ciancio che mi attendeva con l’aria di chi aveva già aspettato un po’ di tempo. “Ho voluto controllare bene tutto, almeno due volte”, gli dissi, quasi scusandomi.
Alla fermata del treno, Ciancio ritrovò la parola. Estrasse dalla borsa un orario e controllò le coincidenze. “Dovrei farcela”, pensò ad alta voce. Era come se, dopo circa cinque ore, fosse finalmente uscito dal suo stato di meditazione.
Fu quello il giorno in cui passai più tempo con Matteo Ciancio. Sul treno eravamo sereni, controllammo che il nostro compito fosse corretto e poi parlammo, anzi fui io che gli parlai di me. Gli dissi che fin da piccolo avevo sempre voluto fare l’architetto e che l’avevo scritto persino in un tema in quinta elementare. Lui mi ascoltava guardando sempre fisso fuori dal finestrino, ogni tanto si girava ed annuiva. Poi mi ricordo che parlammo di pesca. A meno di un chilometro da dove il padre aveva il terreno c’era un fiume e lui amava andarci a pesca la Domenica mattina. Io che avevo avuto un nonno pescatore contrapposi la mia esperienza, parlando del mare, mi spiegò le esche e quanta pazienza ci voleva; era la prima volta che un argomento che non riguardava l’università ci univa. Mentre parlavamo ed il treno superava un numero di gallerie eccessivo, mi sembrava di vederlo, Ciancio Matteo, seduto sulla riva di un fiume, fermo immobile, con la sua canna attendere, attendere, attendere.
Dopo quel giorno del 1995, io e Ciancio non ci incontrammo per molti mesi. Neanche per caso. Poi ad inizio dell’anno successivo, lo rividi seduto, in un’aula deserta all’ultimo piano della facoltà, dove non c’era mai nessuno, combattere contro un problema di statica. Era lo stesso esame che avrei dovuto dare io prima dell’estate, era molto importante perché ci avrebbe consentito di superare lo “sbarramento” ed iscriverci agli anni accademici successivi. Parlammo di quanto fosse complicato quell’esame e di quanto fosse antipatica l’insegnante.
Anche questa volta il nostro era un destino comune. Sapere che anche Ciancio si stava occupando di statica mi sollevò, lui era il mio portafortuna scientifico, era come un incantesimo: ogni volta che c’era di mezzo la matematica spuntava Ciancio e, insieme, in qualche modo, ce la cavavamo sempre.
Quella fu una primavera difficile, a volte mi sembrava proprio di non capirci niente, quando andai a prenotare l’esame vidi il nome di Matteo, come al solito, in cima alla lista, fu l’unico momento nel quale pensai che ce l’avrei fatta. Se avessi avuto il suo numero di telefono l’avrei chiamato per chiedergli qualche indicazione, un consiglio, anche solo per sentirlo parlare di statica o se abboccavano i pesci al fiume.
Una mattina di Marzo, nella sessione straordinaria, io e Ciancio eravamo là in una piccola aula del primo piano della facoltà per risolvere quel dannato compito di statica. Arrivai quando tutti erano già seduti, lui al primo banco ovviamente, e non ebbi neppure il tempo di salutarlo. Di quel mattino mi ricordo che sembrava autunno, nell’aula senza finestre, illuminata da un lungo, nebbioso, neon, non riuscì a trovare nemmeno per una volta lo sguardo di Ciancio. Quando era passata abbondantemente un’ora delle tre previste, il rumore di una sedia che strideva sul pavimento mi costrinse ad alzare gli occhi dal foglio. Ciancio Matteo, dal suo primo banco, si alzò, rimise tutto, fogli, matita, penne colorate e righello, nella sua borsa militare ed uscì. Senza consegnare il compito.
Mi passò accanto come se non mi avesse neanche visto. Ma forse non mi vide davvero.
Fu in quel preciso istante che il mio compito di statica mi sembrò, improvvisamente, un ostacolo insormontabile. Passai di colpo dall’ottimismo allo sconforto. Cominciai a pensare a Ciancio e alla sua resa, a come era stato possibile che non avesse finito il compito e che se non c’era riuscito lui, come potevo farlo io. Ovviamente non riuscii più a concentrarmi per un solo attimo su quella maledetta catena cinematica che aveva sempre troppi gradi di labilità. Provai inutilmente a non mollare. Lottai ancora un’ora contro quel problema, ma era come fare a pugni con un avversario che era diventato da un momento all’altro di un’altra categoria di peso.
Alla fine consegnai quello che ero riuscito a fare, era troppo poco, ne ero consapevole.
Durante il viaggio di ritorno cercai di allontanare i pensieri funesti, ma era quasi impossibile.
Fu quella l’unica occasione nella quale fui bocciato ad un esame all’università.
Passai quella primavera a studiare statica. Abbandonai qualsiasi altra materia e mi concentrai solo su quei dannati esercizi. Fu così che divenni un fenomeno delle catene cinematiche e delle equazioni di bilancio del momento statico. Ma non vidi più Ciancio.
Ogni tanto salivo su all’ultimo piano per dare uno sguardo, affacciandomi, in quell’aula piccola dove lo avevo visto, un giorno, tentare di risolvere quel problema così difficile. Ma non lo incontrai mai. Una volta, quasi per scaramanzia, mi sedetti anche in quel suo stesso posto e lo aspettai invano, per tutto un mattino.
A Luglio io passai l’esame di statica. Ciancio non si presentò a quella sessione e, che io sappia, neanche a quelle successive.
Trascorsero circa quattro anni. Poi arrivò l’ultimo autunno del secolo.
Un mattino dal cielo grigio, ero in anticipo per la lezione e mi ero fermato alla vetrina della grande libreria che c’era sul viale che conduceva in facoltà. Dalla vetrata si specchiavano le immagini di quello che capitava dietro di me. Fu un attimo, distrarmi dai libri e guardare le persone ferme alla fermata del bus dall’altro lato della strada.
C’era un gruppetto di quattro persone, come fantasmi, la sagoma che compariva e scompariva. Mi girai di scatto. Ciancio Matteo era una di quelle quattro, tra una signora anziana, un uomo in giacca che leggeva il giornale e una donna con le buste della spesa. Lo fissai bene qualche secondo per non sbagliare. Poi gli feci come un segnale per farmi notare, “Matteoooo”, gli urlai per farmi sentire. Lui mi fece un cenno della mano. Attraversai la strada emozionato, come quando devi uscire la prima volta con una ragazza e la vai a prendere sotto casa ed intanto pensi a quello che dirai.
Ciancio era sereno, mi salutò con affetto, come se ci fossimo visti il giorno prima.
Lui era così, mai un gesto sopra le righe, mai una manifestazione di affetto particolare, sempre così misurato da sembrare freddo.
“Cosa ci fai qui ?” gli chiesi, la presi larga perché non volevo commettere gaffe.
“Sono andato a comprare delle cose” mi rispose. Ai suoi piedi c’era poggiato un grosso scatolo tenuto insieme da dello scotch marrone da imballaggio.
“Ma che hai fatto con l’università ?”, gli chiesi, sforzandomi di essere il più neutrale possibile. Ciancio mi guardò come si guarda un alieno: l’università era oramai un punto lontano sulla carta geografica della sua vita.
“Ho lasciato l’università quasi quattro anni fa”, mi rispose, e me lo disse come se fosse stata la cosa più naturale della sua vita.
Non so come feci a nascondere lo stupore, il rammarico, la curiosità. Poteva essere la memoria di un fallimento o la svolta di una nuova scelta.
“Ed ora che fai ?”, nel dubbio fui diretto.
“Il miele”. Rispose Ciancio.
Il miele: l’alimento zuccherino prodotto dalle api ? Mi chiesi automaticamente nella mia mente. Indubbiamente era quello che intendeva quando diceva miele. Mi venne in mente la struttura a celle esagonali del favo, costruito da quelle straordinarie architetti che sono le api.
Ciancio, il miele, la fermata del bus, il cielo grigio, per un attimo mi sembrò tutto tremendamente irreale. E la statica ? La Fisica Tecnica ? Gli esami ? Le correzioni in facoltà ?.
“Sono venuto a comprare un’arnia nuova” e mi indicò lo scatolone ai suoi piedi. “C’è un negozio dedicato proprio a due passi dalla facoltà, ci passavo sempre davanti quando andavo a seguire i corsi del primo anno”.
Qualsiasi cosa avrei detto in quel momento, sarebbe stata una stupidaggine. Forse Ciancio capì il mio imbarazzo e allora mi chiese: “E tu? Che fai ? Come vanno gli studi”. A quel tempo mi mancavano pochi esami, forse cinque o sei. Gli e lo dissi curando che non fosse un vanto. “Peccato che hai lasciato, eri bravo tu, un genio della matematica”.
Eccola, la stupidaggine, puntuale, inevitabile. L’avevo detta.
Ciancio mi guardò dritto negli occhi e mi disse: “Ma guarda che a me non è mai piaciuta l’architettura. Mi ero iscritto per far felice mio padre, che è un agricoltore, ha solo la terza media e ci teneva tanto avere un figlio laureato, architetto era il suo sogno, mica il mio”.
Mi disse queste parole come quando si legge un oroscopo, con quel distacco di chi racconta la storia di un parente che vive in Alaska e non vede da vent’anni. Ed intanto allungava il collo per guardare oltre l’incrocio, casomai arrivasse il suo bus. Poi proseguì.
“Io desideravo pescare lungo il fiume e poi stare in campagna. A me piace osservare le api che costruiscono un alveare perfetto e poi fare un buon miele. Questo era il mio sogno, diciamo il mio traguardo, anche se non l’ho scritto in nessun tema delle elementari”.
Mentre mi diceva queste parole, a me Ciancio sembrava davvero felice, come se si fosse tolto un macigno dalle spalle e lo avesse scaraventato lontano.
“Deve essere bello fare il miele”, questa banalità fu tutto quello che riuscii a dire.
“Tu non mollare però” aggiunse, “anche davanti alle difficoltà tira dritto per il tuo traguardo”. Poi smise di guardare l’incrocio, mi guardò fisso negli occhi e mi disse: “o’pescatore s’vede into mare gruoss” (cioè: “Il pescatore si vede quando il mare è agitato”).
Rimanemmo in silenzio qualche secondo. Fu allora che arrivò, sbucando da chissà dove, il bus, Ciancio sollevò lo scatolone e ci salì, “Comunque, quando vuoi passare a trovarmi, vieni pure, ti faccio assaggiare il mio miele”, mi disse. E mentre le porte si chiudevano: “Comunque, io la matematica la odio proprio”.
Fu così che scomparve Ciancio, con la sua arnia ingombrante chiusa nello scatolo con lo scotch, sulla linea “195” del mattino con solo posti in piedi, piena zeppa di pendolari, studenti e “portoghesi”. Senza dirmi neanche “ciao” e soprattutto senza darmi il suo indirizzo.
Anche per questo, da quel giorno non l’ho più rivisto.
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