La mostra/installazione Waterpower “il potere dell’acqua” ospitata lo scorso Agosto nei locali di Villa Rufolo a Ravello, ha avuto il merito di mostrare ad un pubblico numeroso e sicuramente eterogeneo dal punto di vista geografico e culturale, il patrimonio di archeologia industriale in possesso della costa d’Amalfi. Decine di edifici, in gran parte antiche cartiere, ridotte allo stato di rudere, in aree per lo più degradate dal punto di vista ambientale. Sotto le sollecitazioni dell’architetto Luigi Centola, decine di volenterosi architetti, tra i quali anche nomi piuttosto noti, si sono cimentati nell’impresa di cercare di trovare una nuova destinazione a queste volumetrie (in parte crollate), tramite l’espressione di un linguaggio architettonico variegato e contemporaneo. Dopo il successo del Global Holcim Awards 2006 ottenuto con il progetto di recupero degli immobili della Valle dei Mulini di Scala ed Amalfi, Centola ha riprovato l’impresa occupandosi delle valli solcate dai corsi d’acqua Rheginna (Maior e Minor), del Bonea (Cava dei Tirreni) e del Dragone (Vietri sul mare), accumulando una serie di ambiziose idee di ricostruzione sostenute da affascinanti render all’insegna della produzione e dello sfruttamento delle energie ecosostenibili. Fin qui gli elementi di positività del progetto, quindi il resto. Da un osservazione complessiva del lavoro si giunge naturalmente ad almeno un paio di considerazioni di diverso ordine. Dal punto di vista strettamente tecnico, la sensazione generale, confermata dai fatti, è che si tratti di progetti redatti nella maggior parte dei casi da professionisti che ignorano la natura dei luoghi, o perchè non ci sono mai stati o perchè lo hanno visitato in maniera superficiale e senza acquisire sufficienti nozioni, specie normative, sulla natura del territorio. Per questo motivo belle intenzioni di ecosostenibilità finiscono per fare a pugni, ad esempio, con progetti di parcheggi per centinaia di posti auto in roccia. Qui le ambiziosi intenzioni di modernità si sganciano da qualsiasi ipotesi di sviluppo infrastrutturale: il cosiddetto “grand tour” si riduce nella trasformazione degli antichi spanditoi delle cartiere in alberghi di lusso. Sparisce la testimonianza storica e materica del manufatto negando il valore del segno quale prezioso momento di identità territoriale, inoltre si ignora il tracciato degli antichi canali. Non c’è traccia di restauro dell’antico, piuttosto l’unità di misura che pare muovere il progetto è quella del “posto letto”. Più radicati alla realtà, più coerenti anche dal punto di vista della fattibilità, appaiono, viceversa, gli interventi su scala minore nella valle del Rheginna Maior, dove piccoli edifici vengono riadattati a musei, piccole fabbriche, attività artigianali; si intuisce la mano di giovani architetti più prossimi ai luoghi anche dal punto di vista geografico. In sostanza, però, tanti progetti singoli su grande scala non riassumono il senso di una reale trasformazione del territorio che non può evolversi senza un’idea coerente e unitaria. L’unico obiettivo complessivo che trasuda è quello è quello del riadattamento dei volumi, nella maggior parte dei casi fine a sè stesso. Eppure questo territorio ha dimostrato di poter ospitare l’architettura contemporanea se ancorata ad un progetto di sviluppo integrato.
La distanza dalla realtà
Dinanzi ai progetti del Waterpower, allo stupore per tante formidabili immagini, segue la perplessità per il sopraggiungere di una malinconica sensazione di potenzialità, umana più che materica, che resta inespressa; distante da una serie di principi disciplinari fondamentali ma soprattutto dalla crudele terra del regno del “fare”.
(articolo pubblicato sulla PressT/Letter 23/09 – www.presstletter.com)
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