La piccola sala d’attesa della stazione degli autobus era quasi deserta. Un ventilatore a pale nel soffitto, girava pigro, causando un lieve spostamento d’aria, il parato sui muri scolorito e liso. Lo studente di architettura si sporse appena dalla biglietteria, come a controllare che esistesse davvero quella sala, e poi per cercare di capire se poteva sedersi e trascorrerci del tempo. Era là per la durata della lezione: quindici minuti in più. Uscendo dalla facoltà aveva visto il sole scomparire nel mezzo della collina e poi provato a correre, ma non abbastanza veloce. La corsia del bus delle 18 era desolatamente vuota. Era un Mercoledi di inizio Maggio del 1999. Il Maggio più caldo della storia di quegli anni. Lo studente aveva tanti esami sul libretto ma altrettanti da farne. Quel giorno, come sempre, portava snickers con lacci colorati e uno zaino dell’invicta blu sulla spalla. Era felice, ma senza saperlo, la felicità di ogni ventiduenne, quella di chi non ha nessun problema reale, tranne quello, imminente, di dover aspettare quarantacinque minuti per l’autobus successivo. Lui, che riteneva l’attesa sempre tempo perso, odiava aspettare.
Lo studente dai capelli e gli occhi chiari passeggiò qualche minuto nel piazzale, quindi entrò in sala d’attesa guardandosi intorno. Un uomo fumava nonostante il divieto, un altro rimetteva in ordine delle cose estraendole e riposizionandole in una grande busta di plastica bianca. Una ragazza piccola dai capelli chiari e fini tenuti fermi, insieme, da un fermacapelli viola era seduta nell’angolo, con la testa poggiata al muro dietro di lei. Sulle gambe sottili strette, era poggiato un libro chiuso. Il ragazzo fece finta di dover decidere il posto giusto, poi camminò lentamente fino al fondo della sala, quindi si sedette proprio accanto alla ragazza. Avrebbe voluto chiederle il permesso, ma vide suoi occhi chiusi, come se dormisse. Poggiò il suo zaino per terra, facendo meno movimenti possibili, si sedette.
Seguirono alcuni minuti di interruzione. Il ragazzo si incantò a guardare il ventilatore girare, provò a misurarne la velocità in giri al minuto, finché la ragazza si mosse. Lentamente aprì gli occhi. Il ragazzo deglutì come aspettandosi che lei dicesse qualcosa, invece lei a malapena lo guardò. Lui intanto continuava a tenere gli occhi fissi sul ventilatore. Da quel poco che aveva visto, gli ricordava Gwyneth Paltrow in “Sliding doors” . E quella fu la prima cosa che avrebbe voluto dirle ma non ebbe il coraggio. La ragazza si tolse il fermacapelli muovendo i capelli nell’aria e nell’attimo in cui si accorse di lui, lo sfiorò con lo sguardo che entrambi abbassarono subito, quasi all’unisono: riuscirono solo a guardarsi le scarpe. Le sue erano nere, di tela, i calzini a righe spuntavano tra il risvolto dei jeans. La ragazza aveva aperto il libro e preso a leggerne concentrata qualche pagina. Tra le mani la pinza fermacapelli che apriva e chiudeva lentamente, come in un movimento non voluto. Il ragazzo aveva formulato almeno dieci intenzioni per attaccare un discorso ma gli sembravano tutte irrimediabilmente banali e fuori luogo. Sperò che prima o poi la pinza le cadesse dalle mani, così avrebbe potuto raccogliergliela.
Ore 18.29
La ragazza di tanto in tanto sollevava lo sguardo dal libro e prendeva un grande respiro. Ogni volta che lei voltava una pagina, sperava che, scostando gli occhi dai fogli, incrociasse i suoi. Calcolò che doveva farsi trovare pronto ogni 4 minuti circa. Lui guardò l’orologio: uno Swatch con un cinturino blu in finta pelle, gli e lo aveva regalato la sua fidanzata quando ancora stavamo insieme; lui più volte aveva pensato di non metterlo più, ma continuava a tenerlo perché non l’aveva ancora scordata. Lo indossava alla memoria, come si tengono le foto dei parenti sui mobili in soggiorno. Erano trascorsi già ventinove minuti, rapidissimi, come un secondo tempo di uno spareggio salvezza che devi vincere. Lui, nel frattempo, aveva calcolato i giri al minuto del ventilatore, 42 al minuto, contato le righe sulla tappezzeria della sala: 124, i pezzi di gres del pavimento, circa 300. Inoltre aveva stimato che la ragazza avesse aperto e chiuso il fermacapelli almeno 30 volte.
E’ così che trascorrono le attese: fissando e misurando cose di nessuna importanza. Ritenendole inutili e pensando possano durare per sempre. E se ogni attesa avesse un significato preciso ? Il ragazzo pensò anche a quello, ma la sua mente era completamente occupata a trovare il modo per conoscere la ragazza accanto, come una mosca che continua a sbattere sul vetro di una finestra chiusa, in cerca di una impossibile via d’uscita.
Ore 18.44
La ragazza incrociò lo sguardo del ragazzo dopo aver voltato 11 volte le pagine. Per un totale di circa 44 minuti.
Lo guardò distrattamente negli occhi chiari e gli chiese: “scusa, sai l’ora ?”. Spalancando la finestra.
Avevi grandi pupille color nocciola, le labbra troppo grandi sul viso minuscolo e troppo bianco.
“Si, certo”, disse lui. Le lancette gli sembrarono improvvisamente minuscole e sfuocate.
“Un quarto alle sette” rispose.
Seguì un secondo di freddo strano in quel Maggio arido.
“A che ora hai l’autobus ?” chiese lui, prendendo da dentro tutto il coraggio che aveva pazientemente coltivato in quella sala d’attesa.
E gli sembrò subito una domanda sciocca: come faceva ad essere così certo che lei dovesse prendere un autobus ? Magari lei andava a leggere in quella sala d’attesa perché c’era fresco, oppure aspettava qualcuno che doveva arrivare o era appena arrivata e aspettava di andarsene in giro per la città.
Ma rispose: “Tra cinque minuti, il mio autobus parte tra cinque minuti”
E così facendo ripose ancora il libro sulle gambe. Era un libro rosso, voluminoso, un edizione probabilmente economica, dalla copertina molle.
Lui già a corto di argomenti sbirciò il nome dell’autore. Un nome complicato, mai sentito prima.
Quindi lesse qualche riga, quella che riusciva a comprendere, dalla quarta di copertina: “un ragazzo ed una ragazza non ancora ventenni, camminano insieme in silenzio. Non sanno cosa dirsi, o forse hanno paura, parlando di sfiorare il segreto che li tiene sospesi in mezzo alla folla” Avrebbe voluto dirle che anche lui aveva letto quel libro, ma non era vero.
Riuscì solo a chiederle: “è un bel libro ?”
“Si. E’ molto bello” rispose lei, “è ambientato in Giappone ?” chiese lui, che non voleva sbagliare.
“Si” fece lei muovendo la testa in avanti e girando il libro dalla parte della copertina. Degli ideogrammi in verde sullo sfondo tutto rosso erano disegnati in diagonale, il segnalibro era circa alla metà delle pagine.
“Mi piacerebbe vedere il Giappone” disse lui, spostando il baricentro della conversazione. “Vedere il Giappone” che orribile modo di dire, come se il Giappone fosse un film o un locale in centro. Temette di aver sbagliato. Ma lei non ci fece caso.
“Si, anche a me piacerebbe andarci” rispose lei guardando verso l’alto, come se il Giappone si trovasse dalle parti del ventilatore.
A quel punto lui avrebbe voluto chiederle come si chiamava e quanti anni aveva, se anche lei studiava all’università. Avrebbe voluto anche chiederle quale bus doveva prendere, verso quale direzione e se lo prendeva sempre a quell’ora del pomeriggio. Ma in realtà avrebbe voluto anche chiederle se era innamorata, se le piaceva il colore viola, se la sua stagione preferita fosse la Primavera o l’Autunno.
Avrebbe voluto chiederle di non andare via da quella stanza. Di prolungare quel tempo scaduto ora che l’attesa aveva trovato il suo significato.
Ore 18.49
La ragazza si alzò di scatto, ripose il libro in una borsa di pelle grigia e si sistemò i capelli, stringendoli con la sua pinza viola. I suoi capelli tornarono esattamente al loro posto, legati insieme come dei pacchi in cima ad un automobile in partenza, come se nulla fosse mai accaduto. Gli disse semplicemente “ciao”, muovendo appena la mano. Lui rispose senza riuscire a parlare, si mosse per alzarsi ma non fece in tempo. Lasciò uscire la ragazza dalla sala poi corse fuori. La cercò sul piazzale con lo sguardo senza trovarla, vide un autobus allontanarsi senza riuscire a capirne la destinazione. Il sole era già scomparso dietro la collina, il ragazzo rimase qualche istante a guardare l’orizzonte; tornò a casa, come sempre.
P.S.: Quell’anno, fino al termine delle lezioni, il ragazzo, ogni Mercoledì, perse di proposito l’autobus delle 18. Aveva comprato quel libro e nelle pause delle lezioni lo aveva letto sul terrazzo della facoltà, seduto sul pavimento, schiena poggiata alla copertura in amianto. Si era innamorato della storia di quei due ragazzi giapponesi.
Tutte le volte sognava di rincontrare la ragazza per raccontargli che a lui quel libro era piaciuto moltissimo, che forse loro due erano come i protagonisti del libro, attratti da un irreversibile destino. E che voleva andare in Giappone con lei. Attese tante volte quarantacinque minuti da solo, ma lei non tornò mai. Una volta sognò che si rincontravano in quella sala d’attesa e fuori ad attenderli c’era un autobus per il Giappone.
Quando finì quel libro, ne comprò un altro dello stesso autore, e poi ancora un altro, li lesse tutti. Negli anni, ogni volta che quello scrittore pubblicava un libro, si affrettava a leggerlo. Dopo la laurea non tornò mai più in quella sala d’attesa, tuttavia sognò sempre di rincontrare la ragazza dalla pinza fermacapelli di colore viola e gli occhi nocciola, per dirgli che quel libro gli aveva cambiato la vita.
Da quel giorno cerca un significato ad ogni attesa. Desidera ancora “vedere il Giappone”.
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