Si conobbero una domenica sera. Erano soli entrambi.
Lei, venticinque anni di bell’aspetto, automunita, capelli lunghi il giusto, occhi entrambi verdi. Lui un finto alto dalla barba scomoda e le mani fredde. Educato, troppo timido, architetto.
Lei mai un uomo in vita sua, escluso Giorgio, pluriripetente del quarto ginnasio, stettero insieme due anni, li divise la cartolina militare. Fu l’esercito a sconfiggerli.
Lui usciva da una storia lunga con Barbara. Sei anni, nove mesi, quattro giorni, tre ore e ventisei minuti. Fu Barbara a tenere il conto e a lasciarlo, “scusa, sono già quattordici giorni, due ore e trentasei minuti che non ti amo più” aggiungendo: “E ventiquattro giorni e sette ore esatte che amo un altro”. Deformazione professionale: lavorava in un parcheggio ad ore. “Amo un poeta, lui si che sa sognare. Tu sei troppo razionale”, proprio così gli disse. Lui pianse un bel po’, amava il suo sedere ed il suo tacco 12 d’ordinanza.
Quella sera, causa posticipo di campionato, le strade erano deserte. Lui entrò nella rosticceria di lei, conduzione familiare, quattro in tutto: oltre lei, Giacomo il padre ex tassista, Alfonso il fratello diplomato Radioelettra e Anselmo, lo zio impiegato alle poste, che faceva “il nero”. Lui guardò la vetrina e poi gli occhi di lei, la vetrina e poi ancora gli occhi di lei, poi ancora la vetrina e di nuovo i suoi occhi. Poi disse: “mi dia tre crocchè”.
Tra tanti fritti scelse i crocchè per come erano disposti nella teglia: in verticale. Precisi, ortogonali ed equidistanti, gli ricordavano lo schema di Villa Radieuse di Le Corbusier. Lei armò la mano destra della pinza in acciaio selezionò tre torri per appartamenti, e li ripose in un foglio oleato. “Scusi, gli e li metto in un sacchetto ?” chiese. E lui: “no, li mangio qui”. Cominciò tutto così.
Erano dei crocchè buonissimi, i più buoni che lui avesse mai mangiato. Forse i migliori del mondo. All’uscita le chiese. “Quant’è ?”, “un euro e venti” rispose lei mentre batteva la cifra con le sue unghie, dipinte con uno smalto rosso rogo di Lisbona, sul registratore di cassa.
Lui tornò dopo quattro giorni, Giovedi. Lei non lo riconobbe, lui riconobbe lei e i crocchè da quaranta centesimi l’uno. Questa volta erano sistemati in una lunga fila retta orizzontale, come il quartiere Corviale di Roma di Mario Fiorentino ed altri. E, l’indomani, ancora tre. Quando i crocchè formavano infinite “L” nella placca d’acciaio, uguale allo schema del quartiere Tuscolano di Adalberto Libera.
Dopo dodici visite, per un totale di trentasei crocchè, numerosi plano volumetrici architettonici e quattordici euro e quaranta centesimi, lei si ricordò di lui e lo anticipò: “le do tre crocchè ?” gli chiese. Lui incredulo balbettò un “si”, e da allora fu chiaro che era nato l’amore. Di lui a lei piaceva che aveva sempre gli spicci precisi così lei non doveva mai calcolare il resto, operazione che la metteva sempre in grande difficoltà. Di lei a lui piacevano le unghie smaltate di rosso e la sua precisione nella disposizione planimetrica dei crocchè.
Un Mercoledi, di coppa lui decise di dichiararsi: “Vuoi venire con me a vedere la mostra sulle avanguardie russe del novecento ?”. Lei accettò solo per potersi prendere la serata libera.
A cena lui gli parlò un’ora di Mies Van Der Rohe, lei pensò che fosse un cantante. Poi finalmente trovò il coraggio: “Vorrei sposarti” le disse. Lei rispose: “Solo se mi porti via da qui. Non sopporto più l’odore del fritto”. I suoi capelli profumavano di olio di semi di arachidi e pane grattugiato.
“Dove vuoi andare ?” le chiese lui. “Vorrei una casa davanti al mare” rispose socchiudendo gli occhi color verde erba del vicino.
“Bene, ricordati che sono un architetto” si vantò lui all’improvviso. Lei rispose pronta: “ricostruiscimi una vita, ma prima una casa”.
“Posso provarci ma tu promettimi che farai ancora i crocchè per me”. Lei annuì.
Scapparono su un aereo low cost, lui svuotò il suo conto professionale in banca ad interessi zero. Lei rubò quaranta crocchè dalla vetrina, sarebbero bastati per la fuga.
Fittarono casa in un posto davanti al mare. Intorno tanti campi di patate, tutto suolo edificabile. Il primo giorno mangiarono i crocchè rubati rimasti, poi fecero molto l’amore, finchè lei finse un mal di testa.
“Puoi preparami i crocchè ?”, domandò lui. Lei sapeva che prima o poi gli e lo avrebbe chiesto, ci provò. Gli e li porto in un piatto ammassati confusamente. Lui si sforzò, intravedendo, con molta fantasia, solo un’opera malriuscita di Frank Gehry. Erano pessimi.
Lei provò a giustificarsi adducendo motivazioni generiche: “E colpa dell’olio. E’ colpa delle patate. E’ colpa del sale”, poi finirono gli ingredienti. Dopo una settimana, lei confessò, tra le lacrime: “io mi occupavo solo della vetrina, i crocchè li preparava mio fratello, Alfonso”. Lui abbozzò un sorriso, ma il mattino dopo, di nascosto scappò.
Lei rimase in quella casa dove i suoi capelli non puzzavano più di fritto. Si mise con un muratore, uno pratico, niente chiacchiere sul movimento moderno, solo calce e mattoni per tirargli su una casa nuova.
Lui tornò indietro. Deluso. Era poco razionale per lei, così come lo era troppo per Barbara. Il solito destino amaro degli architetti, confinati in questa dannata terra di mezzo. In compenso non pianse neanche una lacrima, perché in fondo non amava lei.
Amava solo i crocchè.
Per questo ora vive con Alfonso.
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